DA ROMA ALLA TERZA
ROMA
XXXV SEMINARIO
INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI
Campidoglio, 21-22
aprile 2015
Università
della Campania
«AGER EST, NON TERRA» (VARRO, L.L. 7.2.18).
LA
“PROPRIETÀ QUIRITARIA” TRA NATURA E DIRITTO CON QUALCHE
RIFLESSIONE
IN
PROSPETTIVA ATTUALE
«Io
parto dal principio, che le nozioni della ‘appartenenza’ giuridica
‘alicujus esse’ e della proprietà, non si fondono assieme,
che in quella vece qualche cosa mi può ‘appartenere’, senza
essere in mia proprietà, vale a dire senza soggiacere ai principii che
sono enunciati pella stessa, rispetto all’acquisto, perdita, protezione,
comproprietà e tocca via». [R. Jhering,
Sul fondamento della protezione del
possesso, trad. it. F. Forlani, Milano 1872, 115]
«Io non
ho niente a che vedere con la critica economica del pensiero comunista, non
posso stare a esaminare se l’abolizione della proprietà privata
sia un bene e porti vantaggi. Ma sono in grado di riconoscere che la sua
premessa psicologica è un’illusione priva di fondamento. Con
l’abolizione della proprietà privata si sottrae alla voglia di
aggressione dell’uomo uno dei suoi strumenti, certamente uno strumento
forte, ma altrettanto certamente non il più forte». [S. Freud, Il disagio della civiltà (1930), in Id., Le opere complete,
vol. II, trad. it. S. Giametta, Roma 2015,
1206]
Sommario: 1.
Premessa. – 2. Ager est, non terra. – 3. La nozione di ager privatus. – 4. Le
sequenze lessicali erus/heres/heredium
e dubinus/dominus/dominium. – 5. Da erus a dominus: ancora qualche precisazione di carattere terminologico. – 6. La
nozione di proprietà in De off.
1.7.21 e nella dottrina politica di Panezio. – 7. L’emersione del dominium
quiritario.
– 8. La “proprietà” tra natura e diritto:
qualche riflessione conclusiva in prospettiva attuale.
Un apodittico e antistorico pregiudizio
è quello per cui il dominium
classico sarebbe stato l’unica vera forma di proprietà che la
storia romana abbia conosciuto[1]. Ci sarebbe invero il cd. duplex dominium di Gaio[2]; ma lo si ritiene un
episodio transitorio; mentre la cd. proprietà
provinciale può essere considerata a parte dato che le fonti non
parlano mai di un triplex dominium[3]. Un altro pregiudizio
altrettanto ben radicato è quello di intonazione giusnaturalistica per
cui la proprietà sarebbe nata con l’uomo perché «non
esiste l’umanità senza la proprietà»[4].
Si tratta di un’altra affermazione molto discussa e
di questo ne era già consapevole lo stoico Crisippo che risolveva il
problema della inesistenza in natura della proprietà usando la metafora
del teatro, dove lo spettatore chiama suo il posto che occupa e si considera,
questa, una cosa legittima. Si superava così il problema di qualificare
come “proprio” qualcosa che nel mondo invece si sentiva come comune
a tutti[5]. Un riflesso di questa
idea è in un frammento di Marciano dove “quasi iure postliminii”,
caduto l’edificio, il luogo (denominato locus) torna nella situazione giuridica precedente[6]. La testimonianza è
molto significativa perché si colloca tra l’esposizione delle cose
acquisite dai singoli a vario titolo (quae
variis ex causis cuique adquiruntur) e
quelle che per diritto naturale erano ritenute comuni a tutti (quaedam naturali iure communia sunt omnium)[7]. Parimenti il regime del ius postliminii non si applicava
all’ager occupatorius o publicatus[8].
Un altro postulato dell’ideologia liberale
ottocentesca è quello «per cui l’unica vera proprietà
sarebbe la proprietà borghese nella sua pienezza, vista ex parte subiecti, quasi come una
proiezione della personalità»[9]; tutto ciò
«con buona pace per l’unitarietà e il monolitismo di quel
‘dominio’ il quale, più che da un’incarnazione
storica, sembra nato da una ideologia o da un’ispirazione
classista»[10].
La proprietà romana, come aveva già intuito Marx, per la sua
intrinseca connessione con la cittadinanza, fu invece una realtà profondamente
diversa dalla proprietà borghese[11].
Quest’ultima reca con sé il vizio faustiano
dell’età moderna: l’aver ridotto la Terra e gli uomini a
materiali di lavoro e quindi aver posto la premessa perché il ruolo di
entrambi potesse equivocarsi nel suo incrociarsi con i valori del mercato[12]. Al tempo
presente, l’oggetto della speculazione capitalista - che muove solo da un
calcolo mercantile indifferente alle merci e si preoccupa solo di sé[13] - non è
più la terra come all’epoca della lex agraria epigrafica; e neanche l’impresa come al tempo
della rivoluzione industriale perché, nel mondo globalizzato e
postmoderno in cui viviamo, sia l’una che l’altra si sono
smaterializzate[14]. Dice bene quindi chi avverte la
necessità di recuperare contatto con le fonti romane liberandoci dal
concetto moderno di “Staat” e anche dalle concezioni
evoluzionistiche hegeliane per riformulare il rapporto tra uomini,
comunità e terra secondo un angolo visuale che sia - se vogliamo
guardare anche in prospettiva attuale - meglio adeguato alla sua realtà
storica, ossia alla sua dimensione più autentica che è quella
naturale[15].
Per restituire il senso forse più vero della
“proprietà quiritaria” intesa come rapporto tra
“proprietà” e civitas
in funzione del rapporto tra uomini e terra, bisogna allora a mio avviso
chiarire anzitutto i termini di una complessa evoluzione storica che ha visto
mutare, nella percezione degli antichi, questa doppia relazione col passaggio
da una concezione augurale di ager
alla figura del dominium ex iure Quiritium;
e in mezzo la configurazione giuridico-politica di un ager privatus contrapposto all’ager publicus. Ma procediamo con ordine.
La storia della proprietà immobiliare a Roma
comincia tradizionalmente con la storia dell’ager publicus. Ma tale nozione ha pochissima rilevanza per il
diritto augurale sebbene le fonti antiquarie dicano che questo era stato
redatto da augures publici[16]. Né compare nel
famoso elenco di Frontino che usa anche il giovane Weber per cominciare il suo
trattato di storia agraria romana[17].
La verità è che ancora in età
annibalica (fine terzo secolo a.C.), la nozione tecnica di spazio per i Romani
era declinata secondo la teoria dei genera
agrorum augurale[18].
Per rendercene conto basta approfondire il significato
della parola ager. Di essa abbiamo
una chiara descrizione in Varrone dove tale nozione appare tanto antica quanto il diritto augurale. Il dato
caratteristico è che ager e terra si consideravano due cose
distinte:
Varro, l.L.
7.2.18: Pacuius: - Calydonia
altrix terra exuperantum virum -. Ut ager Tusculanus, sic Calydonius ager est, non terra; sed lege
poetica, quod terra Aetolica in qua Calydon, a parte totam accipi Aetoliam
voluit[19].
Mentre infatti ager
in senso augurale indicava un territorio limitato a una località
specifica (ut ager Tusculanus, sic
Calydonius ager est, non terra); terra,
come dice anche Elio Stilone[20], designava qualcosa di
più generico, un’intera località geografica (quod terra Aetolica in qua Calydon, a parte
totam accipi Aetoliam voluit) come nella lex agraria del 111 a.C.
dove il concetto di terra Italia indica
una regione geografica[21]. Varrone dice inoltre che
il sostantivo ager in senso comune
aveva anche il significato di “territorio da sfruttare
economicamente”:
Varro,
l.L. 6.34: ager dictus in quam terram
quid agebant, et unde quid agebant fructus causa.
Evidentemente per la mentalità romana la nozione
di “ager” non era un
concetto meramente geografico-spaziale (ager
come territorio), ma rispondeva anche a delle esigenze pratiche (ager come unità produttiva). Il
senso economico di questa prima categoria di ager fu quello di uno sfruttamento fructus causa corrispondente a un significato di economia sostanziale (non già
capitalistica) in opposizione a quello di terra
che, diversamente, cominciò ad avere un significato prevalentemente
politico da quando diventò anche oggetto di preda bellica (ager occupatorius)[22].
Dell’inquadramento giuridico dell’ager occupatorius
si occuparono anche i giuristi. Celso si pose il problema della sua natura
giuridica e Pomponio dimostra che in tale categoria rientravano anche i praedia (publicatur enim ille ager qui ex hostibus captus sit):
D.
41.1.51.1 (Celsus 2 digestorum): Et
quae res hostiles apud nos sunt, non publicae, sed occupantium fiunt.
D.
40.15.21.1 (Pomponius 36 ad Sabinum):
Verum est expulsis hostibus ex agris quos ceperint dominia eorum ad priores
dominos redire nec aut publicari aut praedae loco cedere: publicatur enim ille
ager qui ex hostibus captus sit. Redemptio facultatem redeundi praebet, non ius postlimini mutat.
Qui siamo però già all’esito di un
lungo percorso che portò i giuristi romani a considerare il vocabolo praedium come nomen generale e “ager”
insieme a “possessio”
come sue species. Lo si vede bene in
un frammento del Digesto di Giustiniano dove si legge che anche proprietas loci è un sinonimo di dominium loci[23]:
D. 50.16.115 (Iavolenus 4 epistolarum): Quaestio est, fundus a
possessione vel agro vel praedio quid distet. “Fundus” est omne,
quidquid solo tenetur. “Ager” est, si species fundi ad usum hominis
comparatur. “Possessio” ab agro iuris proprietate distat: quidquid
enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet aut nec potest
pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergo usus, ager proprietas
loci est. “Praedium” utriusque supra scriptae generale
nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt[24].
Il dato è confermato anche dall’Elogio di
Murdia (forse I sec. d.C.)[25] e da Svetonio[26].
Ma c’è di più. Da un frammento di
Catone (frgm. 43), citato in Varro, r.r.
1.2.7 (Ager Gallicus Romanus vocatur, qui
viritim cis Ariminum datus est ultra agrum Picentinum), apprendiamo che
intorno alla fine del terzo secolo a.C. i Romani qualificarono l’ager Gallicus ancora in senso augurale
come ager Romanus e non, in un senso
già laico, come ager publicus.
Da ciò è forse possibile trarre una regola
generale. Se il Senato procedeva alle annessioni dei nuovi territori
squadrettandoli in particelle che aggregava all’ager Romanus; e se questi
nuovi territori venivano integrati nel sistema di ripartizione per tribù
– penso all’ager Falernus;
alle assegnazioni di terra del Sannio irpino e ai territori di Apulia e dei
Bruttii – questo può significare: a) che il sistema di
ripartizione territoriale basato sul concetto augurale di ager Romanus coincideva con quello delle tribù; b) che
questo sistema venne applicato anche per le assegnazioni viritane; c) che
questo era ancora vigente in età annibalica. Il tutto va letto
considerando una nota citazione di Gellio, tratta da un opera di Lelio Felice
in due libri intitolata Ad Quintum Mucium,
da cui si evince con chiarezza che il sistema di ripartizione per tribù
era congegnato su base territoriale[27].
Una diversa concezione più sofisticata di ager qualificato come privatus fa invece la sua comparsa circa
un secolo più tardi in alcune linee
della lex agraria del 111 a.C. nella parte dedicata da tale legge alle terre
e ai possedimenti ager publicus populi
Romani in terram Italiam[28].
Lo si deduce chiaramente dalle prime parole leggibili
della linea 8 di tale legge (utei
ceterorum locorum agrorum aedificiorum privatorum est, esto); ma lo stesso
vale per la linea 14 che disciplina il regime dei trientabula (piccoli possedimenti abusivi di 30 iugeri colendi causa) e per la linea 19
riguardante forse dei terreni esenti da tributo:
linea 14: in eum agrum agri iugra non amplius XXX
possidebit habebitve: [i]s ager
privatus esto;
linea 19: to exve h. l. privatum factum est eritve.
Questa nozione di ager
era già nota a Catone che parla esplicitamente di acquisizioni di ager privatus (in Orat. 79 fragm. 206: Accessit
ager, quem privatim habent, Gallicus, Samnitis, Apulus, Bruttius); ed era
pienamente in uso all’epoca del Censore come attesta Plauto che impiega
tale vocabolo anche nel senso di semplice di “cittadino”[29]. Ad essa fanno menzione
anche Cicerone, Tacito e il tardo Isidoro[30]. Ma, a questo punto, cosa
deve intendersi per privatus?
È forse utile un’interessante testimonianza di Festo tratta
dall’epitome di Paolo:
Paulus-Festus,
v. Privos privasque (L. 252,20):
Privos privasque antiqui dicebant pro singulis. Ob quam causam et privata
dicuntur, quae uniuscuiusque sint; hinc et privilegium et privatus; dicimus
tamen et privatum, cui quid est ademptum.
Come si vede privatus
è da un lato ciò che è del singolo; dall’altro
è ciò che è “sottratto”, ossia ademptum; come due facce di una stessa
medaglia. Il dato trova conferma ancora in Plauto (Poen. 775: ut eo me privent
atque inter se dividant) e in Cesare (b.civ.
3.90.3: rem publicam alterutro exercitu
privare). Questa ambivalenza è coerente con l’ambiguità
dell’heredium rispetto alla
natura collettiva dell’originaria “proprietà
quiritaria” e con l’idea che la proprietà privata non esista
in natura (Crisippo), sebbene, come vedremo, il compito della res publica sia quello di proteggere
ciò che è di ciascuno (Panezio/Cicerone). Essa però non
è ancora pienamente indicativa di un significato patrimoniale. Per un
valore semantico di privatus, nel
senso più chiaro di “proprietà privata”, dobbiamo
attendere infatti almeno fonti del principato[31].
Questa configurazione giuridico-politica dell’ager privatus come una sottrazione di ager publicus, che si affianca alla
preesistente nozione augurale di ager,
aprì la strada anche all’emersione della categoria giuridica del dominium ex iure Quiritium dove l’appartenenza
fondiaria acquistò finalmente un rilievo patrimoniale.
Anche questa vicenda, su cui dovrò soffermarmi in
altre sedi, ha una sua storia che è ben rappresentata sul piano
lessicale dalla sequenza herus, heres, heredium, hereditas a
cui possiamo sovrapporre la sequenza dubinus, duminus, dominus, dominium, dominium ex iure Quiritium che invece
riflette un’idea di proprietà più affine al senso moderno.
È molto interessante a questo riguardo un’altra glossa del
vocabolario di Festo (da leggere insieme a Cato, de agri c. 141 e D. 21.2.75) dove si rileva che fundus, come forma sostantivata del
verbo fundere, era nello stesso tempo
un sinonimo di ager e di res in senso giuridico-patrimoniale[32].
Fundus così contestualizzato potrebbe essere
stato il tramite per arrivare alla nozione di dominium attraverso un’idea di appartenenza della
“proprietà quiritaria” qualificata giuridicamente come auctoritas. Penso all’adversus hostem aeterna auctoritas esto
delle XII tavole[33];
all’estensione postdecemvirale del termine di usucapione biennale per i fundi alle aedes esercitato pro auctore[34]; all’aeterna auctoritas riconosciuta al
derubato dalla lex Atinia di Gellio[35]; e alla formula n. 4.7 (legis actionibus) riportata nel De iuris notarum di Probo: Q.I.I.T.C.P.A.F.A
(quando in iure te conspicio, postulo,
anne far auctor)[36].
Di un impiego di fundus
nella prima accezione abbiamo traccia forse nella formula della lustratio agri di Catone dove fundus, ager e terra hanno
significati non omologhi, ma contigui[37]; per un impiego nella
seconda accezione possiamo leggere invece un frammento del giurista di
età antoniniana, Venuleio Saturnino, dove auctor è proprio colui che dominus rem suam vendicare potest,
ovvero colui a cui spettava pro auctore
l’actio pro evictione[38].
L’aspetto tuttavia per me più significativo
dell’emersione della figura dell’ager publicus/privatus è che la “proprietà
quiritaria”, per effetto di questo cambiamento, può aver perso una
sua attitudine “naturalistica”; cioè un suo aggancio immediato
a un’economia di tipo sostanziale,
per cominciare ad assumere un rilievo prevalentemente patrimoniale[39]. In questo modo l’ager, da mezzo necessario di
sostentamento e di produzione per un mercato localistico e autoreferenziale,
può essere diventato oggetto di mera speculazione capitalistica.
Leggendo le fonti senza pregiudizi non è
impossibile immaginare il processo di affermazione del termine dominium nel lessico dei giuristi della
tarda repubblica. Per questo è necessario attingere anche da fonti
atecniche. Nelle opere di Cicerone sembrerebbe essere assente[40]. Però Festo (L.
88,28) dice che heres apud antiquos pro
domino ponebatur. Il dato è ripreso anche dagli eruditi giustinianei
in Inst. 2.19.7: veteres enim heredes pro dominis appellabant. Varrone, dal canto suo, affermando in r.r. 1.10.2: Bina iugera quod
a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium
appellarunt, stabilisce una diretta derivazione di heredium(/hereditas) da heres[41].
Saremmo in grado allora di rilevare una prima analogia: heres può stare a heredium come dominus può stare a dominium.
E, in base al nesso stabilito da Festo (L. 88,28) di heres come dominus, si
può anche accreditare l’etimologia - sin qui negata dalla dottrina
prevalente - di heres come un
derivato da erus/herus come appare in
alcuni testi ben noti[42].
Per l’etimologia di erus, è incontroverso che questa parola significhi
“signore” (era=
“signora”). Sembra difficile pensare al gallico Ēsus che è una
divinità; ovvero all’ittita eŝha
(signora) che richiama l’accadico aššatu
(sposa) o l’ebraico iššā
(donna). Erus sembra invece derivato
direttamente dall’accadico eš(e)ru
(legittimo): come “colui che porta lo scettro” che ha
corrispondenti in aramaico hārā
e in ebraico hōr (il
“nobile”, il “libero”)[43].
L’importanza del vocabolo erus era stata intuita anche da Giambattista Vico come dimostra,
nel silenzio assoluto della dottrina, un eloquente passo della Scienza Nuova Seconda:
Vico SNS §
513: «Gli Eroi si dovettero dire in sentimento di ‘signori delle
famiglie’, a differenza de’ famoli, i quali, come vedremo appresso,
vi erano come schiavi; siccome in tal sentimento ‘heri’ si dissero
dai Latini e indi ‘hereditas’ fu detta l’eredità, la
quale con voce natia latina era stata detta ‘familia’»[44].
Quanto a dominus,
tale parola significa lo stesso “signore”, ma la glossa festina
alla voce dubenus (L. 59,2) attesta
che: Dubenus apud antiquos dicebatur, qui
nunc dominus. Il che accrediterebbe tale vocabolo come derivato da una base
di accadico dābinu, dappinu, dapnu
(nel significato di “potente”, “dominatore”).
Più propriamente nel senso di dominatore “per titoli di valore
specialmente bellico” che, insieme all’accadico dannum nel segno di “potente detto
di re” o di “divinità”, costituirebbe la base
semantica forse più risalente di tale vocabolo[45].
Questo è un dato interessante perché
è coerente con l’uso di erus/dominus in Plauto e Terenzio nel
significato di “padrone di schiavi” dato che in età antica
la forma di procacciamento più diffusa di schiavi era la conquista
bellica. Secondo Luigi Capogrossi Colognesi la sostituzione di erus con dominus sarebbe avvenuta nel De
agri cultura di Catone, dunque nel corso del II secolo a.C.[46]
Siamo tuttavia sempre indotti a pensare di essere di
fronte a una manifestazione della capacità potestativa del pater familias e non ancora alla
qualificazione giuridica di una relazione proprietaria esclusiva che può
instaurarsi tra un soggetto e una res
(la particella di terreno viritana)[47].
Come si può essere passati allora, attraverso la
figura tecnica dell’heres/hereditas,
da erus a dominus? A questo punto si potrebbe formulare un’ipotesi: da
una concezione “naturale” di erus
come legittimo “signore” dello spazio
che gli compete per vivere insieme al suo nucleo familiare - pur
all’interno di una dimensione collettiva della proprietà
quiritaria - si può essere passati in un secondo tempo a una concezione
“artificiale”, meramente giuridica, di dominus come “padrone” nel senso di chi esercita un dominio (auctoritas) per averlo
acquisito a titolo di preda bellica.
L’affermazione tarda del dominium ex iure Quiritium in diritto
romano è stata la fase finale di un lungo processo su cui potrebbe aver
influito prima l’ingresso dei fundi
nella categoria delle res mancipi[48]; poi l’estensione
della regola dell’usucapibilità biennale del fundus alle aedes in
età relativamente tarda, quasi certamente postdecemvirale, di cui
riferisce Cicerone in Top. 4.23 e pro Caec. 19.54 [49]; e, infine, il tramonto
della mancipatio sulla traditio, quale strumento per alienare
(e come modo di acquisto per) i beni immobili[50]. Per la soluzione di
questo fenomeno può aver inoltre influito forse anche una
volontà, sempre più diffusa, di aggirare il meccanismo
civilistico del modus agri (che era
la quota ideale di terra assegnata al colono negoziabile mediante mancipatio)[51]. Chiude il quadro la
comparsa dell’actio Publiciana
in età cesariana (68/67 a.C.)[52].
In questa direzione è interessante valutare il
contributo di Panezio di Rodi che partì, come ho già ripetuto,
dall’idea di Crisippo che la proprietà privata non esiste in natura
(De off. 1.7.21: sunt autem privata nulla natura). Un approccio quindi comune anche
al diritto romano più antico se è vero che questo aveva
conosciuto ab origine, a parte
l’heredium, forme di
appartenenza in senso stretto solo mobiliari. Panezio, però, nella sua
dottrina filosofico/politica, riconobbe allo “Stato” e alla
“proprietà” una stessa origine, dato che il primo sarebbe
nato per proteggere la seconda[53].
In questi due testi indagatissimi del De re publica di Cicerone, nel secondo
leggiamo che la “res publica”,
dunque lo “Stato”, è res
populi; dove populus è una
moltitudine legittimamente associata per conseguire un utile comune (sed coetus multitudinis iuris consensu et
utilitatis communione sociatus); mossa però non da un calcolo
egoistico (vincere la debolezza dei singoli), ma da un’indole naturale
dell’uomo a vivere in società. In questa definizione
c’è forse tutta l’ambiguità della filosofia politica
del circolo scipionico a cui si può ricondurre a pieno titolo
l’attacco alla disciplina augurale sferrato da Tiberio Gracco padre nel
163 a.C., le utopie democratiche dei figli, gli atteggiamenti regali degli
Scipioni e la propensione oligarchica di un conservatore come Cicerone. Per
descrivere tale situazione mi pare molto appropriato un celebre commento di
Agostino che, in De civitae dei
4.4.1, sentenzia: «togli allo “Stato” il diritto e allora
cosa distingue questo da una banda di briganti?». Del resto (se è
vero quanto Cicerone fa dire a L. Marcio Filippo) dobbiamo considerare che
l’intero patrimonio fondiario italico nel 104 a.C., sembrerebbe essere
stato nelle mani di non più di duemila titolari: De off. 2.21.73: non esse in
civitate duo milia hominum qui rem haberent.
La riflessione paneziana accompagnò in ogni caso
il processo di definitiva trasformazione della possessio dell’ager
publicus in dominium quiritario
fino all’età cesariana e forse anche più avanti; comunque
non oltre l’età dei Severi. Ho ricordato in apertura, soprattutto
a me stesso, come Gaio attesti nel II secolo che presso altre popolazioni
esistesse una concezione unitaria di proprietà e che prima della
“scissione” in duplum era
così anche a Roma[54]. Questa è una
testimonianza celebre che però non insisterei a leggere ancora soltanto
in chiave dogmatico-pandettistica perché il suo valore euristico va, a
mio sommesso avviso, molto oltre mostrandoci, fra l’altro, come
all’arcaica “proprietà quiritaria”, basata sul
principio del “possedere per vivere” o per “esistere”,
si sia sovrapposto – in coincidenza dell’esplosione territoriale
dell’epoca post annibalica – un nuovo modo di “sentire”
la proprietà in senso dominicale e patrimoniale. Il pensiero corre
all’espressione dominium,
riferita al fondo di terra come cespite immobiliare, in un noto passo di Alfeno
Varo:
D. 8.3.30 (Paulus 4 epitomarum Alfeni digestorum): «Qui duo praedia habebat, in
unius venditione aquam, quae in fundo nascebatur, et circa eam aquam late decem
pedes exceperat: quaesitum est, utrum dominium loci ad eum pertineat an ut per
eum locum accedere possit. respondit, si ita recepisset: ‘circa eam aquam
late pedes decem’, iter dumtaxat videri venditoris esset».
Questa testimonianza consente di ipotizzare che la
comparsa di questa figura nel lessico della giurisprudenza romana potrebbe
circoscriversi in un segmento temporale che va da Servio/Alfeno Varo al
giurista Paolo. Su questo e sulle modalità specifiche di tale passaggio
non posso qui soffermarmi[55]. Mi basta tuttavia almeno
sottolineare come il fondamento teorico della dicotomia publicus/privatus, in un noto frammento ulpianeo, appaia costruito
sullo stesso principio dell’utilità che costituisce il fondamento
ideologico delle nozioni di res publica
e di “sovranità” popolare propugnato dal circolo scipionico:
D. 1.1.1.2
(Ulpianus 1 institutionum): Hius
studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad
statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt eni quaedam
publicae utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in
magistratibus consistit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex
naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.
La presenza sporadica della nozione di privatus in opposizione a publicus nel Digesto giustinianeo forse
dev’essere davvero vista solo come «il riaffiorare di un antico
relitto dopo un antico naufragio»[56]. Penso tuttavia che
l’impostazione di Ulpiano tradisca comunque l’originaria concezione
di una “proprietà quiritaria” (il meum esse ex iure Quiritum aio) che quanto alla proprietà
fondiaria era stata espressione fin dall’inizio (con l’heredium) di un rapporto naturale tra
uomini e territorio. Ne è prova la sopravvivenza in non molte testimonianze
anche di un uso di privatus insieme a
ius che assume rilievo come privata necessitudo[57]. Questo dato va letto
ricordando che ius pro necessitudine
era considerato il vincolo di consanguineità e che il concetto di adfinitas nei raggruppamenti più
antichi aveva anche delle implicazioni territoriali[58].
Questo “stretto legame” o “rapporto
inscindibile” è bene illustrato da Cicerone[59] e Seneca[60]; ed è confermato
da Plinio che, parlando di Aristone, definisce tale giurista peritissimus et privati iuris et publici[61]. Queste fonti documentano
una vicinanza della nozione di privatus
più all’originaria “proprietà quiritaria” che
era espressione di un rapporto naturale tra uomini e terra che non al dominium ex iure Quiritium che va considerato, lo ripeto, un dato non
originario, eminentemente giuridico e quindi, si potrebbe dire,
“artificiale” della realtà sociale e giuridica romana.
Il titolo di questa mia comunicazione si rivolge anche
all’attuale. Mi sia consentito quindi di allargare, prima di chiudere,
sia pure brevemente, la prospettiva. Prima di tutto una considerazione di
carattere metodologico. In fondo sin qui non ho fatto altro che proporre la genealogia
critica di un paradigma, la “proprietà quiritaria”, per
restituirlo a quella che a me sembra la sua più giusta prospettiva;
cioè quella delle fonti e della sua realtà storica[62]. È evidente che
qualsiasi genealogia è tanto più efficace quanto più si
rivolge verso un modello teorico che è in corso di degenerazione. Ed
è altrettanto evidente che non è tanto la “proprietà
quiritaria”, intesa nella sua accezione più propria, quanto il
modello di proprietà borghese e individualista che oggi mostra la corda
insieme alla concezione positivista che si ostina a insistere sul
“tecnologico” a spese del “naturale”.
La vera partita va giocata tuttavia anche sul fronte del
cd. postantropocentrismo che
considera come suo oggetto d’interesse – insieme ad altro - anche
l’ambientalismo e le scienze della terra, la biogenetica, le teorie
evoluzioniste, la primatologia e i diritti degli animali. Tutto questo alza di
molto il livello di complessità del problema e ci pone di fronte a delle
sfide ineludibili. L’idea che la vita sia proprietà esclusiva di
una sola specie (l’homo sapiens
sapiens) ci sta portando all’autodistruzione e il ‘900 ci ha
mostrato come il bìos non
può essere disgiunto dalla zoè.
Ma se il vero capitale sembrano essere diventate oggi le
banche dati di informazioni biogenetiche neuronali e mediatiche sugli
individui, siamo sicuri che il modello assoluto ed esclusivista della
proprietà moderna sia in grado di fronteggiare ancora tali fenomeni?
Soprattutto oggi che la proprietà privata si è così
espansa e dematerializzata da arrivare a coprire ormai quasi qualsiasi cosa:
dagli elementi molecolari (i brevetti biologici), agli accidenti della biosfera
(i crediti da catastrofi). Sappiamo cosa ha portato nel mondo antico
l’abbandono del “naturale” in nome del “patrimoniale”
o del “mercantilistico”. Dobbiamo fare lo stesso errore col
“tecnologico”? Sarebbe auspicabile di no. Forse la proprietà
(un certo tipo) è davvero un furto e forse Crisippo aveva ragione: non
esiste in natura, mentre la terra è essa stessa natura. Lo dimostra
Virgilio che con le sue Georgiche ci svela un’idea cosmica e sacra del
rapporto tra uomini e territorio dove il racconto non è un espediente
retorico, né un messaggio allegorico, ma la narrazione di un rapporto
reale. E, come abbiamo visto, la teoria augurale rispecchiava pienamente questa
interazione dove la “proprietà quiritaria” non era un
meccanismo escludente, ma una dimensione del vivere.
Potendo emendare la modernità dai suoi eccessi si
potrebbe allora prendere il positivismo logico e scientifico alle spalle e
tentare di recuperare anche la preziosa eredità del mondo antico di cui
il diritto romano è parte maiore
se è vero che al suo vertice ci sono l’idea di giustizia e il
diritto naturale. È però possibile metabolizzare un cambio di
prospettiva di tale portata senza perdere le opportunità del presente?
Nessuno può dirlo. Uno dei Diritti
fondamentali che appartengono all’uomo in quanto tale oltre i confini
delle “nazioni” (un concetto oggi più che mai in crisi)
è il diritto per ciascuno di vivere il proprio spazio naturale nel mondo
che è lo spazio nel territorio in cui vive e dove forse è anche
nato. Tale relazione andrebbe tutelata dalla legge assecondando il senso
naturale di tale rapporto come insegna l’esperienza antica al di
là delle ideologie e la dura realtà della storia. Per me una
possibilità potrebbe essere di leggere anche l’ambiente che ci
circonda in chiave “personalista” sostenendo l’idea che
territorio e paesaggio sono anche loro res
portatrici della memoria di un passato, di un presente e di un futuro. Ma
questa è un’altra storia.
Mi fermo qui e concludo tornando a miei cari maiores. Penso a Vitruvio per il quale distributio o, detto alla greca o„konom…a, era copiarum et loci commoda dispensatio et parca in operibus sumptus ratione
temperatio[63].
Insomma rispetto dell’attitudine di un territorio a svolgere la sua
naturale vocazione (privata necessitudo).
Se trovassimo anche questo nell’orizzonte di un oculato amministratore
del terzo millennio chissà che la nostra memoria culturale, che è
fatta anche di diritto romano, non possa ritornare utilmente a nuova vita.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione
“Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato
promotore del XXXVI Seminario internazionale di studi storici “Da Roma
alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità
di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR e dall’Istituto
di Storia Russa dell’Accademia
delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema:
MIGRAZIONI, IMPERO E CITTÀ DA ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla
direzione di Diritto @ Storia]
[1] G. Franciosi, Saggi sulle forme di appartenenza
patrimoniale, in E. Dovere (a cura di), Scritti
in ricordo di Luigi Amirante, Napoli 2010, 124.
[2] Gaius, Inst. 1.54 e 2.40.
[3] G. Franciosi, Saggi
sulle forme di appartenenza patrimoniale, ibidem.
[4] G. Franciosi, Saggi
sulle forme di appartenenza patrimoniale, ibidem.
[5] Cicero, De fin. 3.20.67: Sed quem ad
modum, theatrum cum commune sit, recte tamen dici potest eius esse eum locum
quem quisque occuparit, sic in urbe mundove communi non adversatur ius quo
minus suum quidque cuiusque sit. Senza precisare il fatto che Cicerone cita
una affermazione del filosofo stoico Crisippo, questo celebre frammento
è discusso da P.-J. Proudhon,
Che cos’è la
proprietà? O ricerche sul principio del diritto e del governo. Prima
memoria (1840), tr. A. Salsano, Roma-Bari 1967, 61 s., il quale ritiene la
testimonianza ciceroniana «quanto di più filosofico
l’antichità ci ha lasciato sull’origine della
proprietà» (P.-J. Proudhon,
loc. cit., 61). La memoria di Proudhon ebbe vasta risonanza nel panorama
culturale europeo grazie alla diffusione di questo lavoro da parte Karl
Grün in seno alla Lega dei Giusti
società segreta fondata a Parigi nel 1836 da profughi tedeschi con cui
anche Marx ed Engels vennero in contatto. È interessante precisare che
«[...] nella sua critica alla proprietà intesa come ‘reddito
senza lavoro’ era esclusa in maniera assoluta ogni eventuale soppressione
della proprietà individuale, ché anzi quest’ultima gli appariva
come condizione indispensabile della libertà umana: quindi la sua
condanna investiva tanto il liberalismo, che nella società borghese
aveva posto le premesse di un radicale sfruttamento della classe operaia
privata del possesso dei frutti del proprio lavoro, quanto le dottrine socialiste,
che intendevano sopprimere la libertà degli individui nel comunismo dei
beni. ‘Io preferisco’, aveva detto Proudhon, ‘bruciare la
proprietà a fuoco lento piuttosto che darle nuova forza con una notte di
S. Bartolomeo dei proprietari’». Traggo da E. Sbardella, Introduzione a K. Marx,
Il capitale, a cura di E. Sbardella,
4a ed., Roma 2008, 22.
[6] D. 1.8.6pr. (Marcianus 3 institutionum): In tantum, ut et soli domini constituantur qui ibi aedificant, sed
quamdiu aedificium manet: alioquin aedificio dilapso quasi iure postliminii
revertitur locus in pristinam causam, et si alius in eodem loco aedificaverit,
eius fiet.
[7] D. 1.8.2pr. (Marcianus 3 institutionum): Quaedam naturali iure communia sunt omnium, quaedam universitatis,
quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur.
[8] D. 40.15.21.1 (Pomponius 36 ad Sabinum): Verum est expulsis hostibus ex agris quos ceperint dominia eorum ad
priores dominos redire nec aut publicari aut praedae loco cedere: publicatur
enim ille ager qui ex hostibus captus sit. Redemptio facultatem redeundi
praebet, non ius postlimini mutat. La qual cosa si spiega giuridicamente
con Gaius, Inst. 2.66: Ea quoque, quae ex hostibus capiuntur,
naturali ratione nostra fiunt. Sulla nozione di ager publicatus come conseguenza della deditio del 211 a.C. sulla condizione giuridica dell’ager Campanus mi sia permesso di
rinviare a O. Sacchi, L’ager Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di
storia giuridica del territorio dalla MESOGEIA arcaica alla centuriatio romana,
Napoli 2004, XXII-283, spec.
191-234.
[9] G. Franciosi, Saggi
sulle forme di appartenenza patrimoniale, cit., 124.
[10] G. Franciosi, Saggi
sulle forme di appartenenza patrimoniale, ivi, 128. Sul problema molto
complesso dei poteri del pater familias
in relazione agli schemi di appartenenza e al presunto carattere unitario del meum esse arcaico rinvio anche per i
necessari riferimenti bibliografici ad A. Corbino,
Schemi giuridici dell’appartenenza
nell’esperienza romana arcaica, in E. Cortese (cur.), La proprietà e le proprietà.
Pontignano, 30 settembre – 3 ottobre 1985, Milano 1988, 3-38 su cui si
veda anche G. Franciosi, loc.
cit., 127; L. Solidoro Maruotti, Dal dominium ex iure Quiritium al dogma moderno della proprietà,
in La tradizione romanistica nel diritto
europeo. II. Dalla crisi dello ius commune alle codificazioni moderne. Lezioni, Torino 2003, 235-237 e passim.
[11] Così anche P. Catalano, Cittadinanza e proprietà: tra ius Quiritium e diritto naturale,
XVI Congreso Latinoamericano de Derecho
Romano (San José de Costa
Rica, 21-23 de julio de 2008), estr. ant., (2015), in corso di
pubblicazione in Roma e America. Diritto
romano comune. Rivista di diritto dell’integrazione e unificazione del
diritto in Eurasia e America Latina.
[12] G. Alvi, Le seduzioni
economiche di Faust (1989), Milano 2014, 34.
[13] G. Alvi, Le seduzioni
economiche di Faust, ivi, 39.
[14] Per una lettura molto acuta di
questo fenomeno in chiave attuale cfr. ora V. Giuffrè,
Beni della vita e diritto, in Il bisogno del diritto. Momenti dell’esperienza
romanistica, Napoli 2007, 25-51, spec. 44 s.
[15] Per il postulato di una
assimilazione tra comunità (Gemeinde) e Stato (Staat) v. K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin 1953,
379.
[16] Varro, l.L. 5.5.33: Ut nostri
augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus,
peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Romáulño; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra
Romanum et Gabinum, quod uno modo in his serváañntur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a
progrediendo: eo [quod]
enim ex agro Romano primum
progrediebantur: quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habe[n]t singularia, ab reliquio discretus; hosticus
dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur.
[17] Frontinus, De agr. qual. (Lach. 1,1-5=Thul. 1): Agrorum qualitates sunt tres; una agri
divisi et adsignati, altera mensura per extremitatem conprehensi, tertia
arcifinii qui nulla mensura continentur. Cfr. M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das
Staats und Privatrecht, Stuttgart 1891=Storia
agraria romana. Dal punto di vista del diritto
pubblico e privato,
trad. S. Franchi, Milano 1982. Si v. anche W. Kubitschek,
v. Ager, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumwissenschaft,
I, München 1893, col. 784 il quale definisce la prima categoria come
“proprietà privata” (Privateigentum);
la seconda come “proprietà di un comune” (Eigentum einer Gemeinde); la terza come
“proprietà della comunità romana” (Eigentum der römischen Gemeinde).
[18] Si v. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, Templum, Urbs, Ager, Latium,
Italia, in Aufstieg und
Niedergang der römischen Welt. Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der
neueren Forschung, herausegeben von H. Temporini und W. Haase, 16.1,
Berlin-New York 1978, 492 e passim. Per la discussione sul tema mi
permetto di rinviare ancora a O. Sacchi,
L’ager Campanus antiquus, cit., 149-158.
[19] «Dice Pacuvio: -
Calidonia terra, nutrice di uomini forti -. Come si dice ager Tusculano, così si dovrebbe dire “ager” e non “terra” Calidonia. Ma per licenza
poetica, poiché l’Etolia è la terra in cui si trova
Calidone, il poeta ha voluto significare, da una sua parte, tutta
l’Etolia». Trad. it. di A. Traglia da Opere di Marco Terenzio Varrone, Torino 1992 [rist. Torino 1974],
257.
[20] Varro, l.L. 5.4.21: Terra dicta ab
eo, ut Aelius scribit, quod teritur. Itaque tera in augurum libris scripta cum
R uno. Ab eo colonis locus communis qui prope oppidum relinquitur teritorium,
quod maxime teritur. Trad. it. A.Traglia, ivi, 65: «Come scrive Elio,
la terra è così chiamata dal fatto che “teritur”
(viene calpestata). Per questo nei Libri
degli Auguri si trova scritto tera con una r sola. Così il terreno
che viene lasciato ai coloni vicino a una città per uso comune, si
chiama teritorium perché
è quanto mai battuto».
[21] Cfr. M.H. Crawford (ed.), Roman Statutes, in
due voll., 1, London 1996, 157 che riconosce all’espressione terra Italia della legge agraria
epigrafica un valore meramente geografico: «[…] terra Italia is used here for the
geographical entity». Sulla questione v. O. Sacchi, L’ager
Campanus antiquus, cit., 159 ss. Sul
concetto di terra Italia v. ancora O.
Sacchi, Regime della terra e imposizione fondiaria nell’età dei
Gracchi. Testo e commento storico-giuridico della legge agraria del 111 a.C.,
Napoli 2006, 72-83.
[22] Su tale nozione si veda L. Capogrossi Colognesi, Dominium e possessio nell’Italia
romana, in E. Cortese (a cura di), La
proprietà e le proprietà, Pontignano 30 settembre – 3
ottobre 1985, Milano 1988, 161.
[23] Così come nel noto frammento di Neratio di cui in D. 41.1.13pr.
(Neratius 6 regularum): Si procurator rem mihi emerit ex mandato meo
eique sit tradita meo nomine, dominium mihi, id est proprietas adquiritur etiam
ignoranti. Sull’affermazione del concetto di proprietas nel lessico dei giuristi romani v. con bibl. (in part.
Capogrossi Colognesi e Marrone) G. Nicosia,
“Brevis dominus”, in Anuario da Facultade de Dereito da
Universidade da Coruña 10, 2006, 794, nt. 31.
[24] Status quaestionis su questo frammento con bibl. di riferimento in
M. Bretone, I fondamenti del diritto romano. Le cose e la natura, Roma-Bari
1998, 208 e 245.
[25] CIL VI.10230: ut ea ussu suo custodia proprietati meae
restituerentur. Così Th. Mommsen, Mancipium. Manceps. Praes. Praedium, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtgeschichte (Romanistische Abteilung) 23, 1902, 439, nt. 1.
[26] Suetonius, Galb. 7.7: At in iure dicendo cum de proprietate iumenti quaereretur.
[27] Gellius 15.27.5: Item in eodem libro hoc scriptum est:
«Cum ex generibus hominum suffragium feratur, ‘curiata’
comitia esse; cum ex censu et aetate, ‘centuriata’; cum ex
regionibus et locis, ‘tributa’». Cfr. con rif. bibl. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. G. Nocera, Firenze
1968, 363.
[28] Almeno i possedimenti di cui
alle ll. 1-2: terre che qualcuno [sibei]sumpsit
reliquitve; ll. 2-3: terreni che i triumviri assegnarono sortitio ceivi Romanei; ll. 3-4: terre
che furono [re]ddite; ll. 5-6:
terreni che i triumviri assegnarono in urbe, oppido e vico; ll. 6-7: terreni ed
edifici che i triumviri assegnarono o registrarono in una forma censuale. Per
tutto v. O. Sacchi, Regime della terra, cit., 42 ss. e passim; 511-515.
[29] Plautus, Capt. 166: hic qualis
imperator nunc privatus est.
[30] Cicero, De leg. 3.19.43: Deinde de
promulgatione, de singulis rebus agendis, de privatis magistratibusve auduendis;
Phil. 11.25: Valde mihi probari potest, qui paulo ante clarissimo viro privato
imperium extra ordinem non dedi; Tacitus, Agric. 39.2: Id sibi maxime
formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli; Isidorus, Etym. 9.4.30: Privati sunt exstranei ab officiis publicis. Est enim nomen magistratum
habenti contrarium, et dict privati quod sint ab officiis curiae absoluti.
[31] Ovidius, Fast. 5.286: vindice servabat
nullo sua publica volgus,/ iamque in privato pascere inertis erat; Livius
2.24.7: ex tota urbe proripientium se ex
privato; 30.44.11: nunc quia tributum
ex privato conferendum est; Seneca, Epist.
89.20: Inlustrium fluminum per privatum
decursus est et amnes magni magnarumque gentium termini usque ad ostium a fonte
vestri sunt.
[32] Festus, v. fundus (L. 79,2): fundus dicitur ager, quod planus sit ad similitudinem fundi vasorum. Fundus quoque dicitur populus esse
rei, quam alienat, hoc est auctor.
[33] Tab. 6.4 (= FIRA I2. 44) =
Cicero, De off. 1.12.37.
[34] Cicero, Top. 4.23. Quoniam usus
auctoritas fundi biennium est, sit etiam aedium. At in lege aedes non
appellantur et sunt ceterarum rerum omnium quarum annus est usus; pro Caec. 19.54: Lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium; at utimur eodem
iure in aedibus, quae in lege non appellantur.
[35] Gellius 17.7.1. Su questa
legge v. G. Rotondi, Leges publicae populi Romani,
Hildesheim-Zürich-New York 1990 [rist. anast. 1912], 291.
[36] FIRA II.2.456. Su cui v. G. Franciosi, ‘Auctoritas’ e ‘usucapio’ [estr. anticipato
di Labeo 9, 1963, 1-58, spec. 48 e
nt. 230, non pubblicato] ora in L. Monaco, A. Franciosi (a cura di), Opuscoli. Scritti di Gennaro Franciosi,
I, Napoli 2012, 57-116, spec. 106 ss.
[37] Cato, De agri c. 141: [1] Agrum
lustrare sic oportet: impera suovitaurilia circumagi: ‘Cum divis
volentibus quodque bene eveniat,/ mando tibi, Mani,/ uti illace suovitaurilia/
fundum agrum terramque meam,/ quota ex parte sive circumagi sive circumferenda
censeas,/ uti cures lustrare’ [2] Ianum
Iovemque vino praefamino, sic dicito:/ ‘Mars
pater,/ te precor quaesoque/ uti sies/ volens ptopitius/ mihi domo familiaeque
nostrae:/ quoius rei ergo/ agrum terram fundumque meum/ suovitaurilia circumagi
iussi;/ uti tu/ morbos visos invisosque,/ viduertatem vastitudinemque,/
calamitates intemperiasque/ prohibessis defendas averruncesque;/ utique tu/
fruges frumenta,/ vineta virgultaque/grandire dueneque evenire siris;/ [3] pastores pecuaque/ salva servassis/ duisque
duonam salutem valetudinemque/ mihi domo familiaeque nostrae;/ harunce rerum
ergo/ fundi terrae agrique mei lustrandi/ lustrique faciendi/ ergo,/ sicuti
dixi/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus immolandis esto;/ Mars pater,/
eiusdem rei ergo/ macte hisce suovitaurilibus lactentibus esto’. Item [esto
item].
[38] D. 21.2.75 (Venuleius
Saturninus 17 disputationum): Si alienam rem mihi tradideris et eandem pro
derelicto habuero, amitti auctoritatem, id est actionem pro evictione, placet.
[39] Per la nozione di
‘proprietà quiritaria’ mi sia permesso di rinviare ora a O. Sacchi, Ager est, non terra. Dall’ager privatus alla forma agrimensorum:
evoluzione di un paradigma tra natura, diritto, anomalismo e analogismo
giuridico, in Questioni della terra.
Società, economia, normazioni, prassi in onore di Mariagrazia Bianchini,
Atti dell’Accademia Romanistica
Costantiniana XXII, Napoli 2017, 165-199, spec. 180, nt. 47.
[40] E. Costa, Cicerone
giureconsulto, 1, Roma 1964 [rist. an. Bologna 1927], 91 ss.; G. Franciosi, Usucapio pro herede. Contributo alla storia dell’antica hereditas,
Napoli 1965, 183, nt. 19.
[41] Così G. Franciosi, Due ipotesi di interpretazione «formatrice». Dalle dodici
tavole all’usucapio pro herede, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età
romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo,
I, Napoli 1997, 247-257, spec. 257.
[42] D. 9.2.11.6 (Ulpianus 18 ad ed.): Legis autem Aquiliae actio ero competit, hoc est domino; Servius Dan.,
Ad Aen. 7.490: nam (h)erum non nisi dominum
dicimus; Cassiodorus, Ex ps.
2.8(40): hereditates ab ero dicta est, id
est domino.
[43] G. Semerano, v. erus,
in Le origini della cultura europea,
vol. II, Dizionari etimologici. Basi
semitiche delle lingue europee. Dizionario
della lingua latina e di voci moderne, Firenze 1994, 393.
[44] Cito da G. Vico, La Scienza Nuova Seconda giusta l’edizione del 1744 con le
varianti dell’edizione del 1730 e di due redazioni intermedie inedite,
a cura di F. Nicolini, parte prima (I-II), Bari 1953, 222.
[45] G. Semerano, v. erus, ibidem.
[46] L. Capogrossi Colognesi, La
struttura della proprietà e la
formazione dei iura praediorum in
età repubblicana, 1, Milano 1969, 442 ss.
[47] Il problema della natura
giuridica dell’originaria signoria del pater familias è arduo. Per la teoria potestativa v. G. Franciosi, Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica
hereditas, cit., 31 ss.; Id., Famiglia e persone in Roma antica.
Dall’età arcaica al principato, 3a ed., Torino 1995, 43-47,
spec. 46. Contra R. Santoro, Potere e azione, cit., 114 e passim.
Cfr. anche F. Gallo, Osservazioni sulla signoria del pater familias in epoca arcaica, in Studi De
Francisci, 2, 1956, 193 ss.; Id.,
‘Potestas’ e ‘dominium’
nell’esperienza giuridica romana,
in Labeo 16, 1970, 17 ss.; L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorum in età repubblicana, cit., 105
ss.; Id., Ancora sui poteri del ‘pater familias’, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 73, 1970, 357 ss.; A. Corbino,
Schemi giuridici dell’appartenenza
nell’esperienza romana arcaica, in Scritti Falzea, 1987, 43 ss.
[48] F. Gallo, Studi sulla
distinzione fra «res mancipi» e «res nec mancipi»,
in Rivista di diritto romano,
estratto, IV, 2004, 76: «Vi sono
infatti buoni indizi per ritenere che in origine i fondi non fossero inclusi
fra le res mancipi». Ancora F. Gallo, loc. cit., 77: «Tutto
ciò rende assai verosimile la congettura che la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi sia sorta è […] nell’ambito
delle sole cose mobili e che la prima categoria comprendesse esclusivamente in
origine gli schiavi e gli animali da tiro e da soma».
[49] G. Franciosi, Due ipotesi
di interpretazione «formatrice», cit., 247-250; O. Sacchi,
Regime della terra e imposizione
fondiaria, cit., 210 ss. e passim.
[50] Cfr. per tutti A. Guarino, Diritto Privato Romano, 9a ed., Napoli 1992, 377 ss. e ancora F. Gallo, Studi sulla distinzione fra «res mancipi» e «res nec
mancipi», cit., 108 ss.
[51] Il modus agri era una quota di terra inscritta in una forma in seguito alle procedure di
assegnazione viritana. Dice Frontino [De
contr. I.13.7-14.1 (Lach.)] che la controversia de modo - a cui il Digesto giustinianeo dedica l’intera
disciplina del titolo sesto del libro XI intitolato si mensor falsum modum dixerit - riguardava proprio l’agro adsignato. Nell’ager limitatus ogni assegnatario sin da
età repubblicana aveva una quantità di terreno (appunto il modus agri) il cui ammontare veniva
registrato nella forma agri insieme
al nome del beneficiario senza indicazione dei confini (dunque una particella
non esattamente individuata). Diversamente, con riferimento all’ager scamnatus, la ripartizione avveniva
per proximos possessionum rigores [Frontinus,
De agr. qual. I.3.1 (Lach.)]; a
significare che nella forma si
annotavano anche i confini tra i lotti. Cfr. su questo M. Weber, Die römische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung für das
Staats und Privatrecht, cit., 26 = Storia
agraria romana. Dal punto di vista del diritto
pubblico e privato,
cit., 22. V. anche R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber.
Storia di Roma e sociologia del diritto nella genesi dell’opera weberiana,
Bologna 2002, 91, nt. 42. Weber giunge a tale conclusione in base a Hyginus, De
cond. agr. 121.8-16 (Lach.) dove viene presentata come una novità la
registrazione dei confini dei singoli appezzamenti di terreno nelle
assegnazioni di terra di Traiano in Pannonia (non tantum modum quem adsignabat adscribsit aut notavit, sed et extrema
linea unius cuiusque modum compraehendit: uti acta est mensura adsignationis,
ita inscribit longitudinis et latitudinis modum), il tutto per evitare
future possibili controversie (quo facto
nullae inter veteranos lites contentionesque ex his terris nasci poterunt).
R. Marra, loc. cit., 91, nt. 41.
Weber pensò che il modus agri
fosse una misura ambigua perché se, da un lato, era una diretta
espressione dell’economia di villaggio, rappresentando un ideale di
eguaglianza tra i membri della comunità; dall’altro
contribuì significativamente alla sua dissoluzione perché la
proprietà degli assegnatari non era così perfettamente
individuata e dunque protetta dall’esterno. Forse per questo, insieme
alla mancipatio adattata a questa
nuova realtà (come strumento per commerciare la quantità di
terra), con l’introduzione dell’usucapibilità biennale dei
beni immobili cominciò ad affermarsi un nuovo modo di negoziare
privatamente la proprietà immobiliare, la traditio. Possiamo allora chiederci: perché un soggetto
avrebbe dovuto preferire acquistare un pezzo di terra mediante traditio invece che con mancipatio, accedendo quindi alla cd.
proprietà bonitaria, esponendo il suo acquisto alle turbative potenziali
o alla rei vindicatio del cedente per
due anni? Non certo per eludere soltanto il formalismo della mancipatio. Una buona motivazione
potrebbe essere stata quella di usucapire un bene dopo due anni fuori dai
limiti e dagli schemi del modus agri
consolidando invece il titolo di proprietà su una particella ben
identificata nei suoi confini (M. Weber,
loc. cit., 117).
[52] Gaius, Inst. 4.36. Secondo M. Weber,
ivi, 119 l’introduzione dell’actio
Publiciana (forse nel 67 a.C.) sarebbe stato esso stesso un evento mosso
dalla necessità di venire incontro ai nuovi rapporti proprietari
scaturiti dalle leggi sulla cittadinanza e dalla enorme dilatazione della
quantità di terra rientrante nella categoria dell’ager Romanus.
[53] Cicero, De off. 1.7.21: Sunt autem privata nulla natura, sed aut
vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui
bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager
Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum
possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura
fuerant communia, quod cuique optigit, id quisque teneat; e quo si quis
[quaevis] sibi appetet, violabit ius humanae societatis; De re p. 2.1.2: Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae
civitatesque constitutae sunt. Nam, etsi duce natura congregabantur homines,
tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant; 1.25.39: ‘Est igitur’, inquit Africanus,
‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo
modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis
communione sociatus’. eius autem prima causa coeundi est non tam
inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio.
[54] Gaius, Inst. 2.54: aut enim ex iure
Quiritium unusquisque dominus erat aut non intellegebatur dominus. sed postea
diuisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure Quiritium dominus,
alius in bonis habere.
[55] Cfr. adesso O. Sacchi, Ager est, non terra, cit., 183 ss.
[56] G. Aricò Anselmi, Ius
publicum-ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 37,
1983, 329.
[57] Cfr. D. 4.5.6 (Ulpianus 51 ad Sabinum): Nam et cetera officia quae publica sunt in eo non finiuntur: capitis
enim minutio privata hominis et familiae eius iura, non civitatis amittit;
D. 8.1.14.1 (Paulus 15 ad Sabinum): servitus itineris ad sepulchrum privati
iuris manet; D. 28.1.3 (Papinianus 14 quaestionum):
testamenti factio non privati, sed
publici iuris est; D. 39.1.5.19 (Ulpianus 52 ad edictum): Qui remissionem
absentis nomine desiderat, sive ad privatum sive ad publicum ius ea remissio
pertinet, satisdare cogitur: sustinet enim partes defensoris; D. 43.12.4
(Scaevola 5 responsorum): Quaesitum est, an is, qui in utraque ripa fluminis
publici domus habeat, pontem privati iuris facere potest respondit non posse;
D. 1.2.2.46 (Pomponius liber singulari
enchiridii): Tubero doctissimus
quidem habitus est iuris publici et privati et conplures utriusque operis
libros reliquit. In D. 49.14.6 (Ulpianus 6 ad edictum): Fiscus cum in
privati ius succedit, privati iure pro anterioribus suae successionibus
temporibus utitur e D. 49.14.45.4 (Paulus 1 sententiarum): … acta
etiam ad ius privatorum pertinentia restitui postulantibus convenit, si parla,
invece, di ius privati e di ius privatorum in ordine al rapporto
intercorrente tra singolo e fiscus.
[58] Festus, v. adfines (L. 10,15): Adfines in agri vicini, sive consanguineitate coniuncti;
Gellius,13.3.4-5; ancora Festus, v. necessari
(L. 158,22); CIL, 6.32; 6.42. Su questo v. G. Franciosi,
Famiglia e persone in Roma antica.
Dall’età arcaica al principato, cit., 43.
[59] Cicero, Verr. 5.176: nulla tibi cum
isto necessitudo; ad fam.
13.12.1: omnes amicitiae necessitudines.
[60] Seneca, de clem. 1.4.2: Ideo Princeps
regesque, et quocumque alio nomine sunt tutores status publici, non est mirum
amari ultra privatas etiam necessitudines.
[61] Plinius, ep. 8.14.1.
[62] Consapevole della
complessità della definizione di “proprietà
quiritaria” mi limito a rinviare in questa sede, ove bibl., a R. Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in Annali del Seminario Giuridico della
Università di Palermo XXX, 1967, 217-222; 420, nt. 11 e passim; e P. Catalano, Cittadinanza
e proprietà, cit., ntt. 55-60.
[63] Vitruvius, De arch. 1.2.8.